Legittimità sull’Utilizzo di Agenzie Investigative nel rapporto di lavoro

Intervento dell’avvocato del lavoro Alessandro Tonelli dal canale YouTube Studio Legale Lavizzari

 

 

Capita spesso di imbattersi, specie nell’ambito di licenziamenti di natura disciplinare, in problematiche riguardo l’utilizzo di agenzie investigative da parte del datore di lavoro.

Il ricorso a queste è di regola giustificato quando sussistono in capo all’azienda anche semplici sospetti sulla condotta illecita del proprio lavoratore. La giurisprudenza ha di regola ammesso che tali controlli possano essere effettuati anche in forma occulta.

Mi pare opportuno osservare che non si tratta di un controllo sulla mera attività lavorativa, controllo di per sé inibito alle guardie giurate ed all’agenzia investigativa secondo quanto previsto dall’art. 2 dello Statuto dei Lavoratori. È, quindi, fondamentale che il controllo non sconfini nella vigilanza sull’attività lavorativa; banalmente. Per fare un esempio, non si deve trattare di un controllo sulle performance del lavoratore.

In questi giorni, e più precisamente il 4 settembre u.s., la Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’argomento con la sentenza n. 21621 che ha prestato, a mio modo di vedere, il fianco a commenti precipitosi da parte di alcuni operatori del diritto.
In alcuni titoli sulle riviste di settore si affermava che il licenziamento sarebbe illegittimo laddove il datore di lavoro sia venuto a conoscenza del comportamento illecito del lavoratore grazie alla segnalazione dell’agenzia investigativa.

Le cose non stanno in questi termini; il caso analizzato dalla Corte riguardava un dipendente che aveva fatto fittiziamente figurare la sua presenza sul posto di lavoro.

La Cassazione riprende il principio già espresso più volte, laddove afferma “che non è precluso il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti diverse dalle guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale” salvo poi precisare che “il controllo non può riguardare né l’adempimento né l’inadempimento dell’attività lavorativa, ma debba limitarsi agli atti illeciti del lavoratore, non riconducibile al mero inadempimento dell’obbligazione”.

Insomma nulla di diverso da quello che la giurisprudenza maggioritaria afferma da anni.

Ciò che, a mio parere, desta qualche perplessità nella sentenza in oggetto è invece il fatto che la Corte abbia qualificato come mero inadempimento contrattuale, e non come condotta illecita, il comportamento truffaldino del lavoratore, che facendo rilevare la sua presenza sul posto di lavoro veniva retribuito per un’attività lavorativa in realtà mai prestata.

La fattispecie ricorda quella riguardante i così detti, “furbetti del cartellino” riconosciuti colpevoli dalla giurisprudenza civile e penale per fatti del tutto analoghi.

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