Coronavirus e Fase 2
È ormai da giorni che si parla di fine della fase di lockdown e di inizio della cosiddetta fase 2 del Coronavirus con la riapertura (parziale o totale?) delle imprese.
Le notizie che arrivano non sono di certo uniformi ma siamo ancora in attesa della pubblicazione del più volte annunciato “decreto aprile” che dovrebbe contenere tutta una serie di disposizioni volte al sostegno di imprese e lavoratori.
In assenza di notizie certe non è, allo stato, opportuno addentrarsi in analisi e valutazioni ma, di certo, è indispensabile che il protocollo sicurezza, già più volte annunciato dal governo, che andrà a sostituire quello del 14 marzo u.s., venga pubblicato con congruo anticipo così da permettere alle parti interessate di potere utilmente attivarsi per conformarsi alle disposizioni (DPI, informazioni ai lavoratori, ecc.).
Non nascondo, tuttavia, una certa preoccupazione, già condivisa e riscontrata con gli operatori del settore, circa una mancanza di chiarezza su obblighi e responsabilità del datore di lavoro e le conseguenti tutele dei lavoratori.
Se da un lato mi pare indispensabile che le aziende seguano ed adottino con estremo rigore quelle che saranno le disposizioni contenute all’interno del protocollo in corso di emanazione, dall’altro occorre fare i conti con l’assenza di origine professionale del COVID 19 che, per sua stessa natura, può essere agilmente contratto anche fuori dal posto di lavoro.
L’art. 42 del Decreto Cura Italia ha previsto espressamente che se il lavoratore contrae il virus sul posto di lavoro, l’evento verrà trattato come infortunio mentre la circolare INAIL 13 del 08.04.2020 applica il regime delle presunzioni semplici (con inversione dell’onere della prova che sarà posto in capo all’Istituto) a tutta una serie di lavoratori quale il personale sanitario operante all’interno degli ospedali ma anche per le attività lavorative che comportino il costante contatto con pubblico ed utenza.
Quindi la tutela INAIL è riconosciuta a condizione che il virus sia stato contratto sul posto di lavoro, requisito già di per sé non facile da provare; per una certa categoria di lavoratori (indicati tuttavia in modo eccessivamente generico) è, invece, stata introdotta una presunzione di origine professionale con onere in capo all’Istituto di provare, invece, che il virus è stato contratto in modo diverso.
E in tutto questo il datore di lavoro?
Mi pare che allo stato attuale manchino regole precise vuoi per la tutela dei lavoratori (con indicazione specifica dei DPI da adottare per ogni singolo codice ATECO) vuoi per le aziende che anche operando nel pieno rispetto del protocollo (quello del 14 marzo scorso non prevede tamponi e test sierologici né viene specificata la tempistica della sanificazione dei locali) in cui, a mio parere, deve essere tuttavia circoscritta la responsabilità del datore, potrebbero avere non pochi problemi.
Non resta, a questo punto, che attendere i prossimi decreti nonché l’annunciato provvedimento nella speranza di avere una qualche maggiore certezza.